La mostra “Alle radici dell’Uomo” è ospitata nell’ex complesso carcerario “Le Nuove” di Torino, struttura sorta nel 1970 come carcere di isolamento totale. Il progetto di Giuseppe Polani prevedeva infatti l’utilizzo di celle singole per ciascun detenuto e cortili suddivisi a spicchi, a garanzia di un effettivo isolamento diurno e notturno.
“Le Nuove” comprendono 648 celle, ciascuna di 2,26 metri di larghezza per 4 di lunghezza e 3 di altezza e dotate di una finestra a “bocca di lupo” posta a 2,10 metri di altezza; l’area di 37.634 mq comprende 13 bracci, 6 cortili per l’ora d’aria e 2 speciali cappelle con pareti circolari sulle quali affacciavano celle singole, per la partecipazione individuale alle funzioni religiose. All’esterno vi è una doppia cinta muraria concentrica di 5 metri di altezza, con 4 torricelle di guardia angolari.
Durante il fascismo Le Nuove ospitarono oppositori e dissidenti politici, mentre durante l’occupazione nazista, il braccio gestito dalle SS fu teatro di incarceramenti e cruente torture di partigiani ed ebrei deportati e condannati a morte. A partire dagli anni duemila, il complesso “Le Nuove” è stato oggetto di restauro ed è sede del complesso museale.
Ed è qui che il professor Felice Tagliente, presidente del museo, ci accoglie e ci spiega come questo luogo sia rilevante nella storia della città in cui anche la predisposizione geografica sia significativa: il carcere è vicino alla stazione da cui sono partiti i deportati politici ed ebrei per i campi; alle OGR in cui venivano riparati i treni usati per le deportazioni; a sinistra sorge il tribunale, luogo di chi emana sentenze ma non sa come si espiano e poi la sede della città metropolitana. Qui c’è continuità fra ieri e oggi perché se i Missionari della Consolata oggi operano in questo luogo è per via di una vicinanza fisica ma anche storica: il comitato militare regionale con a capo il Gen. Giuseppe Perotti è stato assistito dai missionari della Consolata (P. Masera, P. Fissore), fino alla fucilazione avvenuta al Martinetto il 5 aprile del 1944. La prima esecuzione capitale avvenuta nel 1935 fu seguita da P. Vittorio Sandrone vice superiore generale IMC.
Ci ricorda che siamo presenti qui come persone perché persone hanno dato la vita per altre persone, per il bene comune e vogliamo sottolineare il primato dell’uomo di fronte alle istituzioni che ci circondano. Quindi non l’uomo per le istituzioni ma le istituzioni per l’uomo. In questo senso la mostra è un messaggio di umanità dell’uomo del sud del mondo che arricchisce noi europei sulla diversità nelle visioni dell’uomo.
Il tema la bellezza salva l’umanità. Passare mesi o anni in spazi ristretto danneggia la psiche, lo spirito ma anche il corpo; in carcere si invecchia molto più in fretta si distruggono le capacità umane. L’arte serve innanzi tutto ad andare oltre lo spazio fisico della propria cella, solitudine esistenziale di ciascun uomo. L’arte permette di andare oltre il tempo, non soltanto per tornare ai ricordi ma anche per pensare e progettare il futuro.
La pittura è colore che suscita emozioni, sentimenti. Se in carcere il colore viene usato in maniera mirata e si impiegano colori morti come marrone o grigio, attraverso i colori dell’arte l’uomo si apre alla vita e all’affettività. Un bambino che non sa scrivere manda in carcere un disegno fatto con colori, che il papà contempla per pensare alla propria famiglia, l’unica realtà che dà senso alla vita.
Perché l’arte all’interno del carcere? Per stimolare la mente e far battere il cuore: cercare il senso alla sofferenza della solitudine anche attraverso l’arte. E per creare un rapporto umano sia fra i detenuti ma anche fra detenuti e agenti di polizia penitenziaria che devono approvare e controllare l’idoneità dei materiali fruiti. La ricerca delle radici dell’uomo nella bellezza è un lavoro molto missionario: oggi non c’è bisogno di andare in terra straniera per trovare persone molto diverse da noi e la missionarietà è un tema di grande attualità.
Felice Tagliente chiude il suo intervento esortandoci a far conoscere questa realtà, importante per ricercare il senso dell’uomo non soltanto nel proprio privato ma anche in ambito pubblico, a livello globale.
P. Giordano Rigamonti ci presenta gli altri relatori: Don Ermis Segatti e il Prof. Daniele Ciravegna, due grandi amici dei missionari che con il loro intervento ci guidano in questa esperienza.
Don Ermis Segatti: cosa si è detto di bello sull’uomo? In genere quando si parla di cose belle si intende dire che sono anche buone: il principio di bene buono e vero sono inscindibili. Per ripercorrere il bello Ermis prende spunto dal mondo classico latino, dall’umanesimo, dal ‘700 e dai giorni nostri.
Una frase importante sull’uomo fu detta nell’antichità classica e compare in una commedia di Publio Terenzio Afro che ha formulato tale principio: Io sono uomo e niente di ciò che è umano mi è estraneo – Homo sum, nihil humani a me alienum puto; è diventata uno slogan all’interno dei circoli della comunità classica (I metà del II secolo a.c.) assumendo un forte significato politico in quanto esortava a smettere di considerare l’uomo solo in funzione dello stato (Io sono o valgo solo in quanto funzione dello stato) ma come valore in sé (Io valgo per me).
Il secondo pensiero è tratto dalla lettera 48 a Lucilio di Seneca: la schiavitù era scontata e i grandi potenti possedevano sterminate popolazione di schiavi che servivano nei possedimenti o nelle ville. Seneca commenta il loro impiego anche nelle mansioni più umilianti e si interroga sul perché di tale trattamento. Servi sono! E’ la risposta. Ma Seneca sistematicamente replica: “Però sono uomini, cosa li contraddistingue da te? Anche tu sei nato dal niente”. Considerato nel tempo evidenzia anche il bello di una verità coraggiosa espressa a potenti da un potente che si distacca dal modello comune. Considerato che nel sistema romano in cui se il padrone si è macchiato di qualche colpa i suoi schiavi venivano torturati per ottenere indizi di colpevolezza, Seneca dichiara che “se si tratta lo schiavo da uomo, anche se sarà torturato contro di me, non mi tradirà”.
Nel ‘400 abbiamo inventato una parola bella che usiamo sempre: Umanesimo. La nuova parola pone l’uomo al centro di tutto: in economia, nell’arte, in famiglia, nel lavoro l’uomo deve essere al centro. Uno degli sviluppi più belli di tale concetto nell’occidente è stato portato nel ‘700. Anche di fronte alla Bibbia io uomo voglio rendermi conto di ciò che il testo vuol comunicare e propone un atteggiamento di analisi critica. L’uomo si è messo all’altezza del testo biblico per poter avere certezza del contenuto, assioma fondamentale anche oggi per molte realtà religiose. La bibbia mi deve esaltare come capacità critica e non sopprimere come persona.
Altra parola di portata straordinaria giunge quando si è attaccata alla parola Uomo la parola Diritti: i Diritti dell’Uomo. L’idea è molto pungente perché i diritti non sono concessi da nessuno in quanto innati nell’uomo; non è il sovrano che concede ma il diritto mi è nativo e deve essere riconosciuto. Ma perché sia veramente un diritto bisogna che abbia i mezzi per difendere un tale diritto. Nel ‘700 non si è trovato di meglio che la proprietà: se ho una proprietà e ho i mezzi per difendermi allora veramente ho un diritto. Il concetto innovativo, oltre al diritto non concesso ma nativo, è che tale diritto non dipende dal censo di nascita, bensì dalla proprietà.
Passando ai giorni d’oggi è stata inventata un’altra parola: Trans-umanesimo. E’ una cosa bella a metà. Bella quando guarda alle potenzialità che l’uomo ha ormai su se stesso, le infinite protesi che l’uomo è riuscito a costruirsi intorno a ciò di cui era originariamente. Oggi l’uomo ha un tasso di artificialità impressionante. La cosa buona è che nell’uomo ci sono delle responsabilità costruttive sull’uomo stesso infinitamente più potenti di tutta la storia precedente. Possiamo farci immortali! Tale responsabilità costruttiva su noi stessi, inimmaginabile nel passato, può produrre un effetto perverso: l’accanimento esistenziale e performativo sull’uomo (terapeutici e mentali) con la pericolosa dilatazione forzosa dell’umanità.
Dopo il saluto a Ermis Segatti, Giordano presenta il Prof Daniele Ciravegna, grande esperto e docente di economia che conosce i Missionari della Consolata da molti anni.
Daniele Ciravegna ci parla di come i Missionari della Consolata operino nel mondo. Parlando dei fatti di Parigi si è citato un politologo inglese il quale sostiene che l’unico modo per raggiungere la pace è puntare sullo sviluppo dell’uomo. Ma già nel 1967 il Papa Paolo VI indicava lo sviluppo come luogo di pace. Paolo VI parlava in modo ottimistico: nella metà degli anni ’60 lo sviluppo stava crescendo e non si pensava avrebbe potuto avere un fine. Tono ottimistico come il Concilio Vaticano II che prevedeva un futuro positivo della nostra umanità nonostante i molti problemi. Cinquanta anni fa lo sviluppo e il nuovo modello di pace era citato con speranza. Oggi continuiamo a sostenerlo ma siamo in situazione di difficoltà e di pessimismo. Questo perché lo sviluppo esiste se tutta la popolazione mondiale cresce in modo omogeneo altrimenti si creano squilibri. Ma non c’è stato uno sviluppo globale; paradossalmente è meglio che nessuno cresca piuttosto che cresca solo qualcuno.
Ciò premesso vediamo come affrontano il tema dello sviluppo i Missionari della Consolata. Cito l’esortazione della lettera ai Romani di San Paolo che ispira l’Allamano e i suoi discepoli nella via dell’apostolato. La traduzione moderna al cap. 15 versetto 2 cita ”ciascuno di noi cerchi di fare quel che piace al prossimo e veda il suo bene per farlo progredire nella fede”. Noi dobbiamo porre attenzione all’essere missionari non come si faceva in passato: abbattere le piante della foresta, costruire una bella cappella e poi cominciare a catechizzare e battezzare per incrementare l’annuario statistico dei battezzati.
I Missionari della Consolata non fanno così: seguono letteralmente “far ciò che piace al prossimo ed è per il suo bene per farlo progredire nella fede”. Andando a visitare alcune missioni nel mondo (Colombia, Kenya, Tanzania…) ho potuto vedere il modo di operare: non si sono costruite prima grandi chiese e poi qualcosa che potesse servire alle persone, ma ho visto la costruzione di qualcosa di utile e poi anche una chiesetta. Fra gli Yanomami in Amazzonia a Catrimani vedo il laboratorio di carpenteria, un centro di soccorso sanitario, una scuola. La costruzione più piccola è la cappella non perché la fede non sia importante ma perché il biglietto da visita non è la cappella ma le opere di misericordia E se i Missionari della Consolata fanno bene questo lavoro di misericordia, la maturazione della fede progredirà. Nella Lettera di Giacomo si dice” fammi vedere le tue opere io ti farò vedere la tua fede”. La fede non è a priori rispetto alle opere di carità ma è la conseguenza di un’opera di carità che ha avuto un buon successo.
In questo modo si risolve in modo chiaro l’Inculturazione, tema dibattuto per molto tempo nella chiesa: c’è una fede rivelata cui ci si deve adeguare. Ma in che modo? Lo stile dei Missionari della Consolata è: vedo i bisogni, dò delle risposte ai bisogni e non posso non assorbire le diverse culture. Volendo o meno è il modo più efficace per fare inculturazione. Il Concilio Vaticano II ha risolto in modo chiaro dichiarando che la fede deve essere declinata in vari modi a seconda della cultura. Indottrinare non è inculturare.
I Missionari della Consolata sono latori di un messaggio di Dio tramite Cristo nelle varie culture del popoli, non ponendosi come coloro che insegnano tutto ma come coloro che interagiscono, e da tale confronto nasce la scintilla di fede in cui la cultura locale è presente. Chi si converte sposa la propria cultura con la buona Novella e il Vangelo non distrugge la cultura ma cerca di dare a questa una nuova lettura. Il Vangelo che sta andando a affermarsi in Amazzonia, in Kenya, è sempre lo stesso ma la risposta che le culture danno è diversa e la risposta è duratura se è ragionata. Ed è ciò che fanno i Missionari della Consolata da sempre.