Innanzitutto vorrei esprimere il mio grazie all’Associazione “Impegnarsi Serve” e alle Parrocchie di Rivoli per aver ideato questa iniziativa, certamente complessa e non di facile realizzazione. È stato necessario creare una rete di appoggi, contatti e conoscenze non solo in Italia, ma soprattutto in diverse nazioni dell’Africa.
Il mio ringraziamento va anche a tutti coloro che hanno aderito a questa manifestazione come l’Associazione “Nessun Uomo è un Isola” e gli Scout che si prodigheranno per la “custodia” della mostra durante tutto il periodo della esposizione. E poi un ringraziamento tutto particolare alla Città di Rivoli che ospita e sotto il cui patrocinio si svolgeranno varie attività per ben tre settimane. Rivoli è una città cara ai Missionari della Consolata perché custodisce in via 1 maggio la “Villa” dove il nostro Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, non solo ha curato la stesura definitiva delle prime Costituzioni dell’Istituto, ma con paterno affetto accoglieva i seminaristi che da Torino si recavano da lui per trascorrere tempo e da lui lasciarsi ammaestrare.
Sappiamo che oltre alle 30 opere di artisti africani, fuori concorso potrete contemplare opere di pittori affermati di Lombardia e Piemonte che hanno fatto dono dei loro quadri a sostegno dell’iniziativa. Anche a loro il nostro grazie per questo gesto carico di sensibilità e solidarietà.
Permettetemi ora di fare alcune considerazioni in merito al significato di questa mostra.
Prima di tutto vorrei sottolineare che è una grande opportunità, in greco si direbbe, che è un “kairos” che, a differenza di “kronos”, indica il tempo carico di senso e significato. Perché per tutta la durata della mostra, per tre settimane, da oggi 20 settembre fino al 15 ottobre, siamo chiamati a “Sikìa”, cioè ad ascoltare. Cosa non facile oggigiorno.
Leggevo qualche tempo fa su un quotidiano nazionale un articolo molto interessante di Stefano Bartezzaghi dal titolo: “Ecco perché nessuno ascolta più nessuno” (Repubblica 02/08/14). Ecco uno stralcio molto significativo: “Si parla distratti dal cellulare, si parla a senso unico nei talk show, si parla da soli sui social network … Oggi è una fortuna trovare qualcuno che sa ascoltare … E noi sappiamo fare felici i nostri interlocutori, praticando noi stessi l’ascolto…”.
Difficile non essere d’accordo con le tesi del giornalista!
Ascoltare sembra una operazione “abituale”, quasi “banale”, eppure l’ascolto è impegnativo, spiazza, mette in discussione, esige apertura e reciprocità. Soprattutto l’andare oltre la parola per cogliere il suo “non detto”, ciò che l’altro “sottintende”. Davvero l’ascolto è un arte, la prima forma di rispetto e di attenzione verso l’altro. È la prima forma di accoglienza.
Rivoli allora ha la possibilità di fermarsi e “Sikìa”, ascoltare il parlare nuovo ed inedito di questi opere d’arti che provengono dal Tanzania, dal Mozambico, dall’Uganda, Etiopia e Rd Congo. Si tratta di imparare a vedere con gli occhi del cuore, lasciarsi trasportare e così ascoltare appunto i diversi messaggi sulla bellezza che superano i confini, riducono le distanze fino a farci prossimi e di linguaggi provenienti da culture e da mondi diversi.
È necessario però fermarsi per lasciarci affascinare dal nuovo e dall’inedito.
La seconda considerazione che faccio è che finalmente questi dipinti vanno oltre le immagini di un continente malato e povero, le tragedie e le pandemie, la corruzione e l’ebola, i rapimenti di ragazze e i profughi, per parlarvi di un’altra Africa.
Questa mostra può contribuire a smontare idee stereotipe e pregiudizi che ancora sovrastano l’intero continente nero. E che percepiamo ogni qual volta ci imbattiamo con un immigrato africano residente a Rivoli o a Torino. Questa mostra ci dice che abbiamo ancora tanta strada da fare per andare oltre la semplice convivenza tra di noi o l’assimilazione del diverso nei nostri standard, per giungere ad una piena integrazione.
Ciò che un tempo era impensabile, oggi si realizza: la parola “arte” accanto alla parola “Africa”. È il messaggio che in fondo questi quadri, pur nella loro semplicità, lanciano a tutti noi.
La terza è l’ultima considerazione viene spontanea osservando le diverse provenienze dei quadri, da diversi popoli e da diverse nazioni. Ciò che voglio comunicarvi è ben espresso dal giornalista polacco Ryszard Kapuscinski nell’introduzione al suo libro “Ebano”. Alla parola “libro” noi potremmo benissimo sostituire le parole “questi quadri”.
“Questo libro non parla dell’Africa, ma di alcune persone che vi abitano e che vi ho incontrato, del tempo che abbiamo trascorso insieme. L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamano Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste”.
Non una, ma più Afriche, quindi, è il messaggio che questi quadri ci lasciano. Evitiamo, per favore, ogni tipo di generalizzazione, certo più comoda e sbrigativa, ma troppo spesso fuorviante. Iniziamo da oggi a parlare di Afriche, di popoli, di tradizioni e culture che compongo la ricchezza del mosaico africano, di cui questi quadri sono parte integrante.
Il mio auspicio è che questa mostra possa segnare un balzo in avanti verso una società e una chiesa più accoglienti, rispettose e capaci di ascolto. Possa, inoltre, aiutare a superare barriere e paure per costruire ponti di narrazioni attraverso le varie espressioni dell’arte, dalla musica, alla danza, dalla pittura all’arte culinaria, e così via.
La mostra, un singolo evento che può diventare un momento di un processo dalle conseguenze imprevedibili. Iniziando dalla meraviglia del contemplare il volto dell’altro, soprattutto del diverso, dell’africano, come un’opera d’arte che ti vuole parlare, e che ti chiede semplicemente di metterti in atteggiamento di “sikìa.”
Così la “mostra” diventa vita, nell’incontro di volti e nel superamento delle paure, per un riconoscimento reciproco. Allora un ‘altra Africa inizierà a parlarti, diversa da quella dei giornali e della televisione.
Un concetto magistralmente espresso nelle seguenti considerazioni:
“Qua e là si sente parlare di “Africa povera” di “Africa emarginata”, di “Africa palla al piede dell’umanità”. Questi voci che soffocano le nostre vorrebbero che sulla loro scia ripetessimo che “siamo poveri”, che piangessimo sulla sorte che loro ci hanno imposto. E così arrivano alla conclusione, senza confessarlo apertamente, che esiste una incapacità innata dell’Africa a immaginare e a far valere un modello o anche una visione che le siano congeniali.
A queste voci che decidono della nostra integrazione nel mondo, io rispondo parlando di “AFRICA GENEROSA”, di “AFRICA MARTIRE”, di “AFRICA COME SOLUZIONE”. La riabilitazione del nostro immaginario violato è dunque una posta economica, politica e di civilizzazione. (Aminata Traore, già ministro della cultura del Mali, in “L’immaginario violato”).
Il mio augurio è che ci facciamo interpellare da questa mostra che possa iniziare a parlarci di un’ ALTRA AFRICA, meno desolante, e più portatrice di speranza per il mondo intero.
Antonio Rovelli
Missionario della Consolata
Rivoli 20 settembre 2014